Scritto da jimmi il 18 Luglio 2008
Mancava poco a mezzanotte, quando il primo poliziotto colpì Mark Covell, abbattendo il manganello sulla sua spalla sinistra. Covell fece del suo meglio per gridare in italiano che era un giornalista ma, in pochi secondi, fu circondato da ufficiali della squadra antisommossa che lo colpirono con i loro bastoni. Per un po’ di tempo riuscì a rimanere sui suoi piedi, ma poi una bastonata al ginocchio lo spedì sul marciapiede.
Così comincia l’interessante articolo sulla sanguinosa battaglia di Genova pubblicato ieri dal Guardian in occasione della sentenza al processo sui soprusi e le violenze nella caserma di Bolzaneto. Qui di seguito ne trovate la traduzione completa.
A faccia in giù nel buio, ammaccato ed impaurito, sentiva le forze di polizia intorno a lui ammassarsi per attaccare la scuola Diaz Pertini dove 93 giovani manifestanti stavano dormendo sui pavimenti. Covell sperava che una volta iniziata l’irruzione dalle porte principali non avrebbero più fatto attenzione a lui. Se fosse accaduto lui avrebbe potuto attraversare la strada zoppicando per trovare rifugio nel centro di Indymedia, dove aveva trascorso gli ultimi tre giorni scrivendo articoli sul G8 e sulle violenze della polizia.
È stato in quel momento che un poliziotto gli saltò addosso e gli diede un calcio nel petto con tale forza che l’intero lato sinistra della sua gabbia toracica cedette, mezza dozzina di costole si fratturarono e le schegge penetrarono nel polmone sinistro. Covell, che è alto 1,73 mt. e piuttosto leggero, fu sollevato da terra e volò in mezzo alla strada. Sentì il poliziotto ridere. Un pensiero si formò nella mente di Covell: “Non ce la posso fare.”
La squadra antisommossa era ancora occupata con la porta, così un gruppo di agenti pensò di passare il tempo giocando a calcio con Covell. Questo incontro provocò la frattura della sua mano sinistra e danneggiò la colonna vertebrale. Da qualche parte dietro di lui, Covell sentì un poliziotto gridare che era abbastanza “Basta! Basta!” e sentì che trascinavano il suo corpo di nuovo sul marciapiede.
Un furgone blindato della polizia abbatté le porte della scuola e 150 agenti di polizia, la maggior parte dei quali indossava elmetti e portava manganelli e scudi, si riversò nell’edificio indifeso. Due agenti rimasero ad occuparsi di Covell: uno gli fratturò il cranio con il bastone, l’altro gli calciò ripetutamente in bocca rompendogli una dozzina di denti. Covell svenne.
Ci sono molte buone ragioni per cui non dobbiamo dimenticare ciò che accadde a Covell, che aveva allora 33 anni, quella notte a Genova. La prima è che questo episodio fu solo l’inizio. Entro la mezzanotte del 21 luglio 2001, gli agenti di polizia passarono attraverso tutti e quattro i piani del palazzo Diaz Pertini, dispensando la loro disciplina speciale agli occupanti, riducendo i dormitori di fortuna in ciò che un ufficiale in seguito descrisse come “una macelleria messicana”. Loro e i loro colleghi poi incarcerarono illegalmente le loro vittime in un centro di detenzione, che divenne un luogo di terrore.
La seconda è che, sette anni dopo, Covell e le altre vittime sono ancora in attesa di giustizia. Lunedi scorso 15 tra poliziotti, guardie carcerarie e sanitari sono finalmente stati condannati per aver partecipato alle violenze, anche se ieri è emerso che nessuno di loro sarà incarcerato. In Italia, gli imputati non vanno in prigione fino a quando non sia concluso il processo d’appello, e in questo caso le sentenze verranno cancellate il prossimo anno per superamento dei limiti di prescrizione. Nel frattempo, i politici che furono responsabili delle forze di polizia, delle guardie carcerarie e personale medico non hanno mai dovuto render conto di questi fatti. Domande fondamentali circa il motivo per cui questo è accaduto rimangono senza risposta, e questo ci porta al terzo e più importante motivo per ricordare Genova. Questo non è semplicemente la storia di poliziotti che reprimono una rivolta, ma c’è qualcosa di peggio e più preoccupante sotto la superficie.
Il fatto che questa storia possa essere raccontata testimonia sette anni di duro lavoro, sotto la guida coraggiosa del pubblico ministero incaricato Emilio Zucca. Aiutato da Covell e dal suo personale, Zucca ha raccolto centinaia di testimonianze e analizzato 5000 ore di filmati e migliaia di fotografie. Messi assieme essi raccontano una storia inconfutabile, che iniziò a svolgersi quando Covell restò sanguinante sul terreno.
Le forze di polizia irruppero nella scuola Diaz Pertini. Alcuni di loro gridarono “Black Bloc! Stiamo per ammazzarvi” ma se davvero essi credettero di trovarsi di fronte ai famosi Black Bloc, gli anarchici che causarono violenti tumulti in varie parti della città durante le manifestazioni della giornata, essi si sbagliarono. La scuola fu messa a disposizione dalla città di Genova come base per dimostranti che non avevano nulla a che vedere con gli anarchici; furono anche messe guardie per assicurarsi che nessuno di questi entrasse.
Uno dei primi a vedere la squadra antisommossa irrompere fu Michael Gieser, un economista belga di 35 anni che, come disse successivamente, aveva appena indossato il suo pigiama ed era in coda per il bagno con il suo spazzolino in mano quando il raid ebbe inizio. Gieser crede nella forza del dialogo e in un primo momento si diresse verso di loro dicendo: “Dobbiamo parlare.” Vedendo poi le giacche imbottite, i bastoni antisommossa, i caschi e i fazzoletti che coprivano le facce dei poliziotti cambiò idea e corse su per le scale per scappare.
Altri furono più lenti. Erano ancora nei loro sacchi a pelo. Un gruppo di 10 amici spagnoli nel mezzo della sala si svegliarono e si trovarono picchiati con bastoni. Essi alzarono le mani in segno di resa. Altri agenti si affollarono per picchiarli in testa, provocando loro tagli, ematomi e rottura degli arti, incluso il braccio di una signora di 65 anni. Su un lato della camera diversi giovani erano seduti ai computer, ed inviavano email a casa. Una di loro era Melanie Jonasch, 28 anni, una studentessa di archeologia di Berlino che si era offerta volontaria per dare una mano nell’edificio e non era nemmeno andata alla manifestazione.
Lei ancora riesce a ricordare ciò che accade. Ma numerosi altri testimoni hanno descritto come gli agenti la assalirono, picchiandola in testa così duramente con i loro bastoni che perse subito conoscenza. Quando cadde a terra, gli agenti la circondarono, picchiando e prendendo a calci il suo corpo inerme, sbattendogli la testa contro un armadio nelle vicinanze, e lasciandola infine in un lago di sangue. Katherina Ottoway, che lo vide accadere, ricorda: “Tremava tutta. I suoi occhi erano aperti ma rovesciati. Pensai che stesse per morire, che non sarebbe sopravvissuta.”
Nessuno di quanti stavano al piano terra uscì indenne. Zucca scrive nella requisitoria: “Nel giro di pochi minuti, tutti gli occupanti del piano terra furono ridotti all’impotenza, i lamenti dei feriti si mescolarono con le richieste di chiamare le ambulanze.” Per la paura molte vittime persero il controllo e se la fecero addosso. Quindi i tutori della legge salirono su per le scale. Nel corridoio al primo piano trovarono un piccolo gruppo, tra cui Gieser che ancora stringeva il suo spazzolino: “Qualcuno suggerì di distendersi, per dimostrare che non avremmo opposto resistenza. Così feci. La polizia arrivò ed iniziò a picchiarci uno per uno. Mi protessi la testa con le mani. Pensai:’Devo sopravvivere.’ La gente stava gridando:’Per favore fermatevi.’ Io dissi la stessa cosa … Mi ha fatto pensare a un macelleria di maiali. Siamo stati trattati come animali, come maiali. ”
Gli agenti ruppero le porte delle stanze che davano sul corridoio. In una trovarono Dan McQuillan e Norman Blair, che arrivarono in aereo da Stansted per mostrare il loro sostegno in favore, come disse McQuillan, di “una società libera e giusta con persone che vivono in armonia gli uni con gli altri”. I due inglesi e il loro amico neozelandese, Sam Buchanan, avevano udito l’attacco della polizia al piano terra e cercarono di nascondere se stessi e i loro sacchi sotto alcuni tavoli in un angolo della stanza buia. Una decina di ufficiali irruppero e li scoprirono con le torce, e anche se McQuillan si alzò con le mani sollevate dicendo: “Calmi, calmi.” li martoriarono infliggendo loro numerosi tagli e lividi, e ruppero il polso di McQuillan. Norman Blair ricorda: “potevo sentire cattiveria e odio in loro.”
Gieser era fuori nel corridoio: “La scena intorno a me era coperta di sangue, ovunque. Un poliziotto gridò gridato ‘Basta!’. Quella parola aprì un filo di speranza. Capii il suo significato. Ma essi non smisero. Continuarono con evidente soddisfazione. Alla fine si fermarono, ma fu come togliere un giocattolo ad un bambino contro la sua volontà.”
A questo punto ci sono agenti di polizia su tutti i quattro piani dell’edificio che aggrediscono e picchiano. Molte vittime descrivono una violenza sistematica, per cui ogni agente picchiava ogni persona che incontrava, poi passava alla vittima successiva, mentre il suo collega continuava a picchiare la prima. Sembrava importante che tutti venissero feriti. Nicola Doherty, una assistente londinese di 26 anni, ha poi descritto come il suo compagno Richard Moth le si gettò sopra per proteggerla: “Potevo ascoltare i colpi sul suo corpo. La polizia si sporgeva sopra Rich in modo da poter colpire le parti del mio corpo che restavano esposte.” Quando cercò di coprirsi la testa con il braccio gli ruppero il polso.
In un corridoio ordinarono ad un gruppo di giovani uomini e donne di inginocchiarsi, in modo che fosse più facile colpirli sulla testa e sulle spalle. Qui fu dove Daniel Albrecht, ventunenne studente di violoncello di Berlino, fu colpito in testa così brutalmente che fu necessario un intervento chirurgico per arrestare l’emorragia al cervello. Intorno all’edificio gli agenti roteavano i manganelli, impugnando la parte terminale per usare l’impugnatura ad angolo come un martello.
E in mezzo a questa inarrestabile violenza, ci furono momenti in cui le forze di polizia preferirono l’umiliazione: un poliziotto si fermò a gambe larghe di fronte ad una donna inginocchiata e ferita, le spinse l’inguine in faccia prima di fare lo stesso con Daniel Albrecht inginocchiato accanto a lei; un agente interruppe le percosse, prese un coltello e tagliò i capelli alle sue vittime, tra cui Nicola Doherty; vi erano continui insulti urlati; un poliziotto chiese ad un gruppo se stavano bene e ad uno che disse “No” reagì dandogli un’altra razione di botte.
Alcuni sfuggirono, almeno per un poco. Karl Boro si rifugiò sul tetto, ma poi commise l’errore di tornare all’interno, dove gli causarono pesanti ematomi a braccia e gambe, una frattura al cranio, ed un’emorragia al torace. Jaraslaw Engel, polacco, riuscì ad uscire dalla scuola attraverso le impalcature, ma fu catturato in strada da alcuni agenti che lo colpirono sulla testa, lo sdraiarono sul terreno e si fermarono su di lui fumando mentre il sangue colava sull’asfalto.
Due tra gli ultimi ad essere catturati furono un paio di studenti tedeschi, Lena Zuhlke, 24 anni, e il suo compagno Niels Martensen. Si erano nascosti in un’armadio per le pulizie all’ultimo piano. Sentirono la polizia avvicinarsi, battendo i manganelli contro le pareti delle scale. La porta dell’armadio si aprì, Martensen fu trascinato fuori e picchiato da una dozzina di agenti disposti a semicerchio intorno a lui. Zuhlke corse in corridoio e si nascose in gabinetto. Alcuni agenti la videro, la inseguirono e la trascinarono fuori per i capelli.
Nel corridoio la puntarono come cani con una lepre. Fu colpita alla testa e presa a calci da tutti i lati sul pavimento, dove sentì la sua gabbia toracica collassare. Fu trasportata fino al muro dove un poliziotto le puntò il ginocchio all’inguine, mentre altri continuavano ad assalirla con i manganelli. Lei scivolò lungo il muro e continuarono a colpirla a terra: “Sembrava che si stessero divertendo, quando ho gridato di dolore, la cosa sembrò dare loro ancora più piacere.”
Alcuni agenti di polizia trovarono un estintore e spruzzarono schiuma sulle ferite di Martensen. La sua compagna fu sollevata per i capelli e gettata giù per le scale a testa sotto. Infine trascinarono Zuhlke nella sala al piano terra, dove avevano radunato decine di prigionieri provenienti da tutto l’edificio in un caos di sangue e di escrementi. La gettarono sopra ad altre due persone. Non si muovevano, e Zuhlke chiese loro se fossero vivi. Essi non risposero, e lei rimase distesa sulla schiena, incapace di muovere il braccio destro e di fermare gli spasmi al braccio sinistro e alle gambe, mentre il sangue le usciva dalle ferite alla testa. Passava un gruppo di agenti, ed ognuno di loro sollevò il fazzoletto che gli nascondeva il volto, e si chinò a sputarle in faccia.
Perché i tutori dell’ordine si comportarono con tale disprezzo per la legge? La risposta più semplice può essere quella cantata al di fuori dell’edificio scolastico dai manifestanti i quali scelsero una parola che sapevano la polizia avrebbe capito: “Bastardi! Bastardi!” Ma qualcos’altro accadde qui, qualcosa che emerse più chiaramente nel corso dei giorni successivi. Covell e decine di altre vittime dei raid furono ricoverati all’ospedale San Martino, dove agenti di polizia passeggiavano per i corridoi, battendo i manganelli sulle palme delle mani, ordinando ai feriti di non muoversi o guardare fuori dalla finestra, tenendo molti di loro ammanettati ed inviandoli, spesso con ferite ancora non curate, attraverso la città a raggiungere numerosi compagni, provenienti dalla scuola Diaz e dalle dimostrazioni, detenuti presso il centro di detenzione di Bolzaneto.
I segnali di qualcosa di brutto apparirono prima in modo superficiale. Alcuni agenti avevano canzoni fasciste come suonerie sul loro telefono cellulare e parlavano con entusiasmo di Mussolini e Pinochet. Più volte, essi ordinarono ai prigionieri di dire “Viva il duce”. A volte usarono le minacce per costringerli a cantare canzoni fasciste oppure: “Un, due, tre. Viva Pinochet!”
La 222 persone trattenute a Bolzaneto sono state trattate con metodi più tardi descritta dai pubblici ministeri come tortura. All’arrivo furono marcati con croci a pennarello su ogni guancia, e molti sono stati costretti a camminare tra due file di agenti che li colpivano con calci e bastonate. La maggior parte sono stati ammassati in grandi celle, contenenti fino a 30 persone. Qui furono costretti a stare in piedi per lunghi periodi di fronte al muro con le mani in alto e le gambe divaricate. Quelli che non riuscivano a mantenere la posizione erano sgridati, schiaffeggiato e percossi. Mohammed Tabach ha una gamba artificiale e quando, incapace di tenere la stressante posizione, crollò fu ricompensato con due spruzzate di spray al pepe nel volto e, più tardi, con un pestaggio particolarmente feroce. Norman Blair ricorda che stava in quella posizione quando una guardia gli chiese “Chi ti governa?” “La persona prima di me aveva risposto ‘la polizia’, e così dissi lo stesso. Avevo paura di essere picchiato”.
Stefan Bauer ebbe il coraggio di reagire: quando una guardia gli chiese in tedesco da dove proveniva, egli disse di appartenere all’Unione europea e che aveva il diritto di andare dove voleva. Fu portato all’esterno, picchiato, gli fu spruzzato spray al pepe in pieno volto, venne spogliato nudo e messo sotto una doccia fredda. I suoi vestiti furono portati via e fu riportato nella cella fredda indossando solo un leggero camice da ospedale.
Ai detenuti tremanti sui freddi pavimenti di marmo delle celle furono date poche coperte o nessuna, furono tenuti svegli dalle guardie, fu dato loro poco o nessun cibo e negato loro il diritto di fare telefonate e vedere un avvocato. Essi potevano sentire pianti e urla provenienti dalle altre celle.
A uomini e donne con capelli alla rasta questi vennero tagliati in modo grossolano. Marco Bistacchia fu portato in un ufficio, spogliato nudo, fatto mettere a quattro zampe e gli fu ordinato di abbaiare come un cane e gridare “Viva la polizia italiana!” Egli era troppo singhiozzante per obbedire. Un anonimo agente ha detto al quotidiano italiano La Repubblica che aveva visto altri agenti urinare su prigionieri e picchiarli perchè si rifiutavano di cantare Faccetta Nera, una canzone dell’era di Mussolini.
Ester Percivati, una giovane turca, ricorda che le guardie la chiamavano puttana mentre veniva condotta in bagno, dove un agente donna le spinse la testa in giù nella tazza e un maschio la derideva:”Bel culo! Vuoi che ti ci infili un manganello?” Diverse donne raccontarono di minacce di stupro, sia anale che vaginale.
Anche l’infermeria era pericolosa. A Richard Moth, riempito di tagli e lividi mentre proteggeva la sua compagna, furono dati punti sulla testa e sulle gambe senza anestesia “un’esperienza estremamente dolorosa e molesta. Hanno dovuto tenermi fermo.” Tra i condannati per abusi Lunedi scorso troviamo anche personale medico.
Tutti concordano che questo non non fu un tentativo di far parlare i detenuti, ma si cercò semplicemente di creare paura. E funzionò. Nelle testimonianze i detenuti descrivono il loro senso di impotenza, di essere tagliati fuori dal resto del mondo in un luogo senza leggi ne regole. Infatti la polizia obbligò i prigionieri a firmare dichiarazioni di rinuncia tutti i loro diritti legali. Un uomo, David Larroquelle, testimoniò di essersi rifiutato ed ebbe tre costole rotte. Percivati anche si rifiutò, e gli sbatterono la faccia contro il muro, rompendogli gli occhiali e facendogli sanguinare il naso.
Al mondo esterno fu data un’immagine molto distorta di tutto questo. Mentre era all’ospedale San Martino il giorno dopo i pestaggi, Covell si sentì scrollare la spalla da una donna che capì essere dell’ambasciata Britannica. Fu solo quando un uomo iniziò a prendere fotografie che egli realizzò che era una reporter del Daily Mail. In prima pagina il giorno successivo fu pubblicato un falso articolo in cui lui venne descritto come uno degli organizzatori dei disordini. (Quattro anni più tardi, Il Mail sì è poi scusato pagando a Covell un risarcimento danni per violazione della privacy.)
Mentre i suoi cittadini erano malmenati e torturati in stato di detenzione illegale, il portavoce dell’allora Primo Ministro Tony Blair dichiarava: “La polizia italiana ha avuto un difficile compito. Il primo ministro ritiene che l’abbiano portato a termine.”
La stessa polizia italiana alimentò i mezzi di informazione con una dieta ricca di menzogne. Mentre i corpi sanguinanti venivano portati fuori dall’edificio della Diaz Pertini sulla barelle, la polizia raccontava ai giornalisti che le ambulanze schierate in strada non avevano niente a che fare con il raid, e/o che le ferite, palesemente fresche erano vecchie, oppure che l’edificio fu trovato pieno di estremisti violenti che attaccarono i poliziotti.
Il giorno successivo, alcuni ufficiali tennero una conferenza stampa durante la quale annunciarono che chiunque era stato trovato nell’edificio sarebbe stato accusato di resistenza all’arresto e cospirazione per causare distruzioni. Successivamente i tribunali respinsero ogni singolo addebito nei confronti di ogni singola persona. Incluso Covell. La polizia lo accusò di una serie di gravi reati descritti dal pubblico ministero Enrico Zucca come “grotteschi”.
Nella stessa conferenza stampa la polizia mostrò alcune delle cosiddette armi ritrovate. Vi erano piedi di porco, martelli e chiodi che essi stessi avevano preso da un cantiere vicino alla scuola; strutture di zaini in alluminio, che furono presentate come armi offensive, 17 telecamere, 13 paia di occhiali da nuoto, 10 coltellini tascabili e una bottiglia di lozione Sun-Tan. Mostrarono inoltre mostrate due bottiglie molotov che, come Zucca poi concluse, furono precedentemente trovate dalla polizia in un’altra parte della città e portate nell’edificio della Diaz Pertini a raid concluso.
La disonestà pubblica fu parte di un più ampio sforzo per coprire ciò che era accaduto. Nella notte del raid, un gruppo di 59 poliziotti entrò nell’edificio di fronte alla Diaz Pertini, dove Covell e altri avevano organizzato il centro di Indymedia e dove, soprattutto, un gruppo di avvocati stava raccogliendo prove sugli attacchi delle forze di polizia durante le precedenti dimostrazioni. I poliziotti entrarono nella stanza degli avvocati, minacciarono gli occupanti, ruppero i loro computer e sequestrarono i dischi fissi. Portarono via anche qualsiasi cosa contenesse materiale fotografico o video.
Anche se i giudici si rifiutarono di condannare i detenuti, la polizia ottenne per tutti l’espulsione dal paese, e l’interdizione all’ingresso per un periodo di cinque anni. Così, i testimoni sono stati eliminati dalla scena. Come le iniziali accuse, anche tutti gli ordini di espulsione sono stati successivamente respinti dai tribunali in quanto illegali.
Zucca combattè la sua battaglia per anni, tra negazioni e offuscamenti. Nella sua relazione ufficiale, ha constatato come tutti gli alti ufficiali negarono qualsiasi coinvolgimento: “Non vi fu un singolo ufficiale che confessò di aver avuto un qualche ruolo di comando in ogni aspetto dell’operazione.” Un alto funzionario che è stato filmato sul luogo spiegò che egli era a riposo ed era intervenuto solo per assicurarsi che i suoi uomini non fossero stati feriti. Le testimonianze dei poliziotti furono mutevoli e contraddittorie, e sono state ampiamente contraddette dall’evidenza delle vittime e dei numerosi filmati: “Nemmeno uno dei 150 agenti presenti ha fornito informazioni precise riguardanti un singolo episodio.”
Senza Zucca, senza la forte posizione dei giudici italiani, senza il grosso lavoro di montaggio di filmati dei raid Diaz fatto da Covell, la polizia avrebbe eluso le proprie responsabilità ed ottenuto false accuse e pene detentive nei confronti di molte delle loro vittime. A parte il processo Bolzaneto che è finito il Lunedi, 28 altri ufficiali, sono sotto processo per il loro ruolo nel raid alla Diaz. E nonostante tutto, giustizia non è stata fatta.
Nessun politico italiano è stato coinvolto, nonostante la forte impressione che la polizia agì come se qualcuno avesse garantito loro l’impunità. Un ministro visitò Bolzaneto mentre i detenuti venivano maltrattati e apparentemente non vide nulla, o almeno nulla che lui pensava dovesse cessare. Un altro, Gianfranco Fini, ex segretario nazionale del partito neo-fascista MSI e successivamente Vice Primo Ministro, è stato, secondo quanto pubblicato dai media al momento, nella sede centrale di polizia. Non gli è mai stato richiesto di spiegare che ordini diede.
La maggior parte delle diverse centinaia di agenti di polizia coinvolti nella Diaz e Bolzaneto sono usciti senza alcuna condanna disciplinare o penale. Nessuno è stato sospeso; alcuni sono stati promossi. Nessuno degli agenti che erano a Bolzaneto è stato accusato di tortura: la legge italiana non riconosce questo reato. Alcuni alti ufficiali che furono inizialmente accusati per il raid alla Diaz sfuggirono al processo perché Zucca non fu semplicemente in grado di dimostrare l’esistenza di una catena di comando. Anche ora il processo ai 28 agenti accusati è in pericolo perché il primo ministro, Silvio Berlusconi tenta attraverso leggi apposite di ritardare tutti i processi che si occupano di eventi verificatisi prima del giugno 2002. Nessuno è stato accusato per le violenze inflitte a Covell. E come disse Massimo Pastore, uno degli avvocati vittime vittime delle violenze: “Nessuno vuole ascoltare ciò che questa storia insegna.”
Questa storia ci parla di fascismo. Secondo molte voci le forze di polizia, i carabinieri e il personale carcerario appartenevano a gruppi fascisti, ma non c’è nessuna prova a sostegno. Pastore sostiene che manca il punto principale: “Non è solo una questione di pochi fascisti ubriachi. Questo è un comportamento di massa da parte della polizia. Nessuno disse ‘No’. Si tratta di cultura fascista.” In sostanza questo ha comportato ciò che Zucca descrisse nella sua relazione come “una situazione in cui ogni diritto legale sembrò essere stato sospeso.”
Cinquantadue giorni dopo l’attacco alla scuola Diaz, 19 uomini utilizzarono aerei carichi di passeggeri come bombe volanti e mutarono le ipotesi fondamentali su cui le democrazie occidentali avevano basato i propri commerci. Da allora politici che non avrebbero mai descritto se stessi come i fascisti hanno consentito intercettazioni telefoniche di massa e la sorveglianza della posta elettronica, la detenzione senza processo, la tortura sistematica, la sparizione dei detenuti, un numero illimitato di arresti domiciliari e le uccisioni mirate di indagati, mentre la procedura di estradizione è stata sostituita dalla extraordinary rendition. Questo non è il fascismo di dittatori militari con la bava alla bocca. È il pragmatismo di politici esperti. Ma il risultato appare molto simile. Genova ci dice che quando lo Stato si sente minacciato, il diritto legale può essere sospeso. Ovunque.
Nessun commento:
Posta un commento